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HOW FAR SHOULD WE GO?

Wherever Yugo, I go

di Rossella Farinotti

 

FONDAZIONE ICA MILANO

2022

 

                         booklet-ICA
 

Nel 2019 Lucia Cristiani crea l’opera Wherever Yugo, I go, un parabrezza di una Yugo, piccola auto iconica della ex Jugoslavia, su cui l’artista ha fatto incidere con l’acido la frase “How far should we go to make something of myself?”. Questo quesito, che avevo letto nel suo studio spiando il parabrezza posato a terra, ha innescato una riflessione che attraversa uno stato d’animo frequente per chi intraprende un percorso con una determinata sensibilità. Quanto si deve andare avanti per fare qualcosa di noi stessi? Si prosegue per migliorare? Ma poi, cosa significa “andare avanti”?
Il progetto sviluppato a ICA Milano parte da questa riflessione che accomuna visioni, pratiche, stili e azioni di artiste e artisti che hanno compiuto un percorso di ricerca partendo da precise riflessioni: l'attenzione - visiva o emotiva - e la fruizione di un determinato ambiente o paesaggio, di un habitat che spesso può anche essere ripensato, rivisitato o ri-costruito. E delle azioni che questi possono innescare. 

La mostra.
Su questa linea stratificata, che impegna diversi media, emergono tracce, frammenti, modi di agire, segnali. In mostra si osservano disegni romantici, minuziosi nella resa e surreali nell’impatto visivo, creati da un intenso e inaspettato dialogo fra la natura vivida delle piante, creature fantastiche e una forte dimensione umana, femminile (Fariselli). Dipinti realizzati con la tecnica del frottage, con un rosso densissimo e un eterno movimento apparente, raccontano le viscere e i fuochi della terra, così come nature morte attivamente vissute. (Carrara). Si passa dal margine di un fiume scolpito in cemento e posato a terra, come una fragile testimonianza di un corso d’acqua, crocevia di passaggi e azioni (Favini), alle luminose fotografie che ritraggono, come specchi, cianotipie che, pian piano, si sviluppano nell’acqua riportando alla visione elementi vegetali - semi, piante - come in un disegno mosso, trasportato (Mariotti). Anche qui la natura è fluida, ma controllata ed elaborata dall’azione umana. E ancora immagini fotografiche riprese da telecamere di sorveglianza non protette, che rilevano dettagli naturali - delle palme, un grande fiore dalla resa sfuocata, romantica e verde. Frammenti di paesaggi spiati che puntellano lo spazio come segnali inseriti in una mappa (Fenara). Da contrappunto alla fluidità e al movimento di questo andare visivo c’è poi il rigore di una scultura bianca, stabile, ispirata da elementi urbani esterni - nello specifico un elemento utilizzato in edilizia -, qui ironicamente ribaltata, come in un gioco per bambini, e studiata per un interno (Ronchi). Pensata per uno spazio potenzialmente domestico è anche l’installazione che ricrea - attraverso l’azione concettuale attivata da uno specchio riflettente, da un banale oggetto d’uso quotidiano, dal vapore acqueo e un cuscino su cui si posa un nido - un ambiente intimo, ma complesso e oscillante, forse precario (Oberti). Qui l’uomo è osservatore attivo, è coinvolto come parte del contesto. Diventa paesaggio. E poi ancora, per restituire al lettore un ulteriore frammento della mostra, si interagisce con un elegante elemento di connessione, installato al centro della grande stanza a delineare un rito di passaggio: un arazzo manualmente elaborato dove raffinati elementi naturali si fondono con materiali come l’argento, i fili, le perle, richiamando degli erbari trasparenti e preziosi. (Cristiani). 

Procedere a ritroso. Il paesaggio. 
Ogni opera, qui accennata a tratti, rappresenta la formalizzazione di un pensiero non spinto dall’urgenza di informare, ma da una necessità di espressione e dimostrazione dell’esistenza di più realtà e diverse visioni. La mostra, infatti, non si pone come obiettivo quello di restituire una soluzione, ma di dichiarare possibili scenari dentro o oltre l’ambiente circostante. Si tratta di un’azione seduttiva, romantica, non per sviare il pensiero necessario al miglioramento o al ripristino della condizione di pace, di calma, ma per attivarlo acuendo sensibilità e forze per poter procedere. Una ripartenza a ritroso? Forse. Un’indicazione per “fare il punto” tornando un po’ indietro, per, poi, ripartire in avanti. Puntualizzare quel “qualcosa di assente”, “quelque chose d’absent” (Camille Claudel), quel dettaglio che non si era mai fatto notare, o che non c’era, ma che è curioso e importante quanto la strada maestra. 

How far should we go? è dunque una mostra sul paesaggio: quello puramente geografico e ammirato da una precisa postazione; quello sognato la notte o ripreso da un’immagine rubata; quello ricostruito e attivato da uno spazio e una funzione specifici o, ancora, quello interiore, che è sempre in primo piano - declinata sotto i diversi aspetti del lavoro di otto artiste/i differenti per generazione e codice linguistico. È una mostra che pone in dialogo opere e installazioni che divagano tra loro per approccio nei confronti del reale, ma con forti linee in comune che cercano di evadere un sistema che, quotidianamente, è sempre più complesso, senza regole. O con false regole, da aggirare con educazione e nuovi immaginari. Il titolo della mostra è già un’indicazione di un progetto non predefinito e incasellato, di un percorso non finito. “How far should we go”, rivede infatti quella frase estrapolata dall’opera di Lucia Cristiani che accomuna diversi pensieri, mestieri e visioni, soprattutto nel campo del contemporaneo quotidiano. 

Paradigmi. Abbiamo perso il nostro giardino.
Tra i temi narrati si rileva dunque quello predominante del paesaggio, indicato da raffinati punti di vista in dialogo con l’ambiente e le sue architetture. Ma anche con i suoi vuoti. Si attivano immaginari legati alla natura morta, a quella viva e in movimento, a frame rubati, a flussi d’acqua, a difetti rivisitati in virtù, ai non luoghi e alle sue derivazioni. Questi sono alcuni dei protagonisti di un progetto collettivo dove la linea analitica si espande oltre i confini socio-politico-culturali di una comunità e oltre l’osservazione veloce e superficiale delle cose. How far should we go analizza in particolare le diverse percezioni atemporali di spazio e movimento, di spostamento e viaggio. Le opere che tracciano il percorso di mostra sono frammenti legati tra loro da linee ed estetiche che a volte combaciano, rielaborando la realtà in chiave autonoma, rilevando punti magari ancora non focalizzati. 

“L’esperienza, di per sé, non è che una materia amorfa, priva di dimensioni, esteticamente irrilevante” (Emanuele Trevi). L’esperienza deve dunque prendere forma per essere mostrata, raccontata, ritrattata. Le otto poetiche sono interpretazioni capaci di ampliare uno sguardo, moderare una percezione, incrementare un pensiero. Il percorso si muove, attraverso loro, come una mappa geografica, procedendo per analogie tra un’opera e un’altra, tra un concetto e l’altro, tra un’azione e una fruizione, tra un manufatto e un’idea. Ogni opera è traduzione di una visione, di un’esperienza o una soluzione estetica per creare un unicum equilibrato e fluido, dove bellezza e pensiero, complessità e ingegno, sono unite in un ordine narrativo.  

“L’uomo perde il suo posto originario, la sua dimora, il suo habitat” scrive Agamben rileggendo “Il giardino delle delizie” di Bosch. Abbiamo perso il nostro giardino. Ce lo riprenderemo. Lo ricostruiremo.

Essere presenti.
“…to be lost is to be fully present, and to be fully present is to be capable of being in uncertainty and mystery. And one does not get lost but loses oneself, with the implication that it is a conscious choice, a chosen surrender, a psychic state achievable through geography.”

Rebecca Solnit, writing about Walter Benjamin, A Field Guide to Getting Lost

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